Interviste & Articoli


Ruggero Raimondi: Don Chisciotte
in Helena Matheopoulos: Bravo
Milano, Garzanti, 1987, pp.264-283

Per fortuna, amicizia e rispetto reciproco, tra Faggioni e Raimondi, erano abbastanza forti da sopravvivere a quella differenza d'opinione e il loro successivo incontro, nel 1982, ebbe come risultato un affascinante allestimento di Don Chisciotte. Risultato al quale si arrivò per le insistenza di Raimondi, che voleva cantare in quell'opera, perché gli piaceva, mentre non piaceva a Faggioni che, pur considerando straordinario il personaggio di Don Chisciotte, considerava "fragile" il resto dell'opera.
Ma più rifletteva sul personaggio, più paralleli trovava tra se stesso, Don Chisciotte e Raimondi. "Siamo rimasti tutti e due piuttosto ingenui ed idealisti: gente che ama e porta avanti la professione per le possibilità che essa offre di comunicare idee e principi attraverso la messa in scena delle opere, più che per motivi di gloria.
Ruggero è forse un po' meno ingenuo e idealista di me, ma ugualmente ci sono in lui le stigmate di un idealista i cui sogni sono rimasti inappagati e che si sente ferito dal mondo in cui è costretto a vivere". Avendo trovato così un punto di identificazione con l'opera, Faggioni passò a metterla in scena in un modo che era sospeso tra il vero personaggio storico di Don Chisciotte e il donchisciottismo insito nel fare parte della professione operistica e teatrale.
Don Quichotte di Faggioni L'azione non aveva luogo nella Spagna del sedicesimo secolo ma nella prima parte del ventesimo, l'epoca di Massenet, che aveva composto la parte per Saljapin. Mostrava un grande cantante - come Saljapin o un Raimondi di quei tempi - in tournée per la Spagna per rappresentare, appunto, la parte. La scena riproduce un cortile spagnolo piuttosto misero, e la prima entrata di Don Chisciotte è in sella a un cavallo di legno tirato da bambini, cavallo che fa ovviamente parte dell'attrezzatura di scena. Poi le luci si attenuano e lui comincia a cantare il duetto d'amore; ma viene a mancare la luce, così, uscendo dal personaggio, il cantante grida, "ehi, le luci" e poi, mentre quelle si riaccendono, assumendo un chiarore più fioco e più notturno, torna a infilarsi nel personaggio di Don Chisciotte, nel quale Raimondi e Faggioni hanno riversato tutti i loro sogni inappagati e le frustrazioni di chi lotta contro la routine della propria professione. Qui, come Faggioni ricorda e i critici confermano, Raimondi produceva "alcune sfumature meravigliosamente dosate di colore vocale". "Opera" faceva riferimento al "magistrale ritratto che Ruggero Raimondi dà del protagonista, notevole per la sua dinamica calibratissima e finemente controllata e per la qualità cantabile di una voce dai colori splendidi. Raimondi, un cantante di indubbia fama internazionale, pare sia stato ancora una volta stimolato da un personaggio interessante". Raimondi considera quella produzione una delle massime esperienze drammatiche della sua carriera ed è profondamente affezionato al ruolo, sebbene questo comporti enormi sforzi vocali e drammatici. "Come dicevo, bisogna essere molto in forma per cantare nel Don Chisciotte, o si rischia di rimanere senza fiato verso la metà dell'opera, se non addirittura nel bel mezzo di una frase. Certe scene come quella del duello, per esempio, esigono che uno si prepari molto bene in anticipo, perché una volta che ti ritrovi in scena e travolto dalla verve eroica del personaggio può capitarti di dimenticare di esercitare il controllo necessario per l'atto fisico di cantare, e questo è un problema grave. Se dimentichi di respirare al momento giusto, una nota che ti è sempre sembrata facile all'improvviso diventa difficilissima da affrontare, e perfino impossibile, perché hai dimenticato di preparare il tuo meccanismo a intonare quella nota. Anche qui, come nel Boris, è tutto imperniato sull'interazione tra abbandono e controllo. Per quanto tu possa perderti nel personaggio, devi ricordarti di contare, uno, due, tre, e badare bene a come salti giù dal cavallo perché, nel passaggio che sei tenuto a cantare mentre salti, c'è una nota alta. Perciò devi trovare il modo di essere in uno stato d'estasi senza mai lasciare che il controllo ti sfugga. Ma l'equilibrio ideale tra le due cose non lo si raggiunge mai... Non riuscirai mai a controllare te stesso al cento per cento". Thomas Allen, un altro grande attore-cantante, è d'accordo, ma è interessante notare come i cantanti che non sono noti per la potenza drammatica delle loro interpretazioni non conoscano questo problema, né mai vi alludano. E in effetti, come Raimondi precisa con ragione, al mondo ci sono due categorie di cantanti lirici: "quelli che cantano gli acuti e quelli che interpretano, e io sono consapevole di fare parte di quest'ultima. Ma è una cosa che si paga, perché si tende a perdere di vista il controllo tecnico, a gettarsi nella parte e a ritrovarsi, alla fine, stanchissimi. Però, si arriva anche a certe profondità di intuizione che gli altri cantanti non raggiungono mai ...". Ricorda certe sequenze della durata di due o tre minuti, nel film di Losey, Don Giovanni, in cui "toccavo certe corde di sensibilità che neppure sapevo di avere. Losey le definiva un 'flash', e dopo che erano passate mi era molto difficile ritrovare quelle profondità e ricatturare il mistero di quei momenti. Sono un sensitivo, profondamente attratto e al tempo stesso spaventato dall'occulto, e sono andato molto in là in senso psichico, quasi al punto di smarrire me stesso. Sono quello che i francesi definirebbero journalier, ossia, ho certe giornate di sensitività molto acuita in cui ho la sensazione, non di diventare il personaggio che sto cantando, ma di udirne materialmente la voce. In momenti così, perdo completamente la battaglia per il controllo tecnico e mi abbandono interamente al personaggio, alle sensazioni e agli stati d'animo che sta sperimentando. E' un'impressione meravigliosa, un po' come di morire e poi di rinascere... Ma i momenti così sono molto speciali e non si verificano spesso. Secondo la mia esperienza, li ho conosciuti soltanto in Don Giovanni e in Boris Godunov, tanto a Venezia che a Parigi, e in Don Chisciotte". Piero Faggioni dice d'avere, in momenti così, l'impressione di un'anima in procinto di auto-affrancarsi attraverso il canto, grazie al genio di un compositore il quale ha intuito che una certa nota musicale evoca e libera la massima espressione di una data sensazione o stato d'animo, proprio come un pittore sa per istinto quali colori evocheranno certe reazioni in chi guarda. Note musicali e frasi esplicano la stessa funzione, e tuttavia c'è una differenza fondamentale tra le due cose. Le note non sono concrete, e finché non arriva un cantante a trasformarle in un certo colore vocale esse rimangono un semplice respiro, una vibrazione. "Ma se questo cantante è in grado di arrivare, ricreandola, alla stessa emozione immaginata dal compositore, allora avviene il miracolo, ed è questo genere di miracolo a fare grande l'opera lirica. Ed è grazie ad artisti come Raimondi e Domingo, che sono in grado di operare miracoli del genere, che io trovo il coraggio di continuare in questa professione.


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